La nostra identità è un valore

Negli ultimi giorni all’interno del dibattito indipendentista imperversa un’interessante discussione sul tema della bandiera della Lombardia. In particolare, su quale sia la migliore bandiera per la Lombardia come parte del territorio dello stato italiano che si appresterebbe a intraprendere un processo di autodeterminazione. Checché se ne dica, queste discussioni sono molto utili. Un dibattito su temi come questo non fa che aumentare la nostra consapevolezza e conoscenza dell’argomento, entrambe utili nel proseguo della nostra attività politica. In particolare, la discussione verte sulle due possibilità che ci si presentano: scegliere una bandiera più rispettosa del patrimonio storico e simbolico della Lombardia, oppure mantenere la rosa camuna,  marchio ufficiale di Regione Lombardia, organo istituzionale di riferimento, attualmente,  per l’indipendentismo lombardo. Senza voler protrarre una parvenza di imparzialità, espongo subito la mia tesi: la rosa camuna è un marchio inadatto a rappresentare la Lombardia, sia per quanto riguarda il processo indipendentista nascente, sia per quanto riguarda la vita della Lombardia come comunità indipendente. Nel presente articolo cercherò di argomentare questa mia posizione; come sempre, cercando di mettere ordine nelle mie personali elucubrazioni.

Partiamo da un presupposto: la diffusione di una bandiera riguarda il riconoscimento che una comunità le attribuisce. Non riguarda, dal mio punto di vista, la diffusione sul territorio data alla rosa camuna dall’esposizione negli edifici pubblici. Semplificando, il fatto che il marchio di Regione Lombardia si trovi fuori dalle scuole e dagli ospedali non comporta necessariamente un riconoscimento da parte della popolazione lombarda. Per sincerarsi di quest’ultimo bisognerebbe fare un’indagine demoscopica inedita, nel frattempo possiamo osservare l’utilizzo di tale simbolo in manifestazioni(meglio se non politiche) in Lombardia. Questo uso è praticamente nullo, fatta eccezione per un nuovo amore da parte di movimenti politici vicini all’attuale giunta regionale. Se si pensa che la Rosa Camuna sia più adatta come bandiera nazionale a causa della sua diffusione, forse bisognerebbe capire che una bandiera sventolata da un lombardo ha un valore intrinseco maggiore di un’asta attaccata fuori da un ufficio pubblico.

Per quanto riguarda le alternative alla Rosa, come la croce rossa in campo bianco o il biscione visconteo, il rischio maggiormente paventato riguarda una connotazione troppo politica attribuita a tale simbologia; questo tenderebbe a politicizzare la battaglia indipendentista. Dal mio punto di vista il rischio è molto meno marcato di quanto paventato, dal momento che la croce rossa in campo bianco fa già parte della simbologia identitaria di numerosi comuni lombardi, ad esempio della capitale Milano, e non viene percepita come un drappo politico. Mi permetto di osservare, che se la croce rossa è considerata come un simbolo politico, così anche la Rosa Camuna rappresenta un organo istituzionale fortemente caratterizzato politicamente, cosa che potrebbe limitarne la diffusione, del resto attualmente assente. A conferma di ciò, basta rifarsi al crollo di legittimazione popolare degli enti locali, e di conseguenza di Regione Lombardia. Se decidi di basare la tua simbologia nazionale su un marchio di un’istituzione fortemente delegittimata, rischi di vedere delegittimato un simbolo che formalmente dovrebbe rappresentare tutti i lombardi, ma che può essere percepito come un marchio commerciale di una classe politica invisa alla popolazione.

In ultimo, spesso e volentieri si sente dire che la bandiera è una questione marginale, e che pur di essere uno stato andrebbe bene qualunque simbolo nazionale. Non sono d’accordo con questa visione, ma in ogni caso, se assumiamo un punto di vista pragmatico alla questione del nostro vessillo, perché dovremmo scegliere una bandiera senza alcuna legittimazione storica, senza alcuna diffusione tra la popolazione, e con l’unico vantaggio di essere collegata ad un’istituzione percepita come lontana dai cittadini? Onestamente mi sfugge.

Come spesso accade, la questione in esame è diventata un viatico per discussioni più teoriche sullo stato dell’indipendentismo in Lombardia, sulle diverse strategie dei movimenti politici e su quale sia la via migliore per ottenere l’indipendenza.

Mi permetto di segnalare il tentativo di tacciare i sostenitori di una bandiera storica come nazionalisti e spinti anche da riflessioni di tipo etnico. Insomma, chi pensa che sia giusto tenere conto del patrimonio simbolico e culturale della Lombardia sarebbe un etnonazionalista. Non ho paura di descrivere quest’atteggiamento come disonestà intellettuale, dal momento che mi rifiuto di pensare che chi si occupa di questi argomenti usi termini così pesanti senza conoscerne il significato.

Credo sinceramente che la base per un processo di autodeterminazione che porti all’indipendenza della Lombardia sia la considerazione condivisa dalla maggior parte dei lombardi di essere tali; di essere lombardi in una comunità lombarda. L’etnonazionalismo è un abominio e il più serio ostacolo concettuale per l’indipendenza della Lombardia. Vedere l’utilizzo di una simile corrente di pensiero per simili artifizi retorici mi disarma. Probabilmente la troppa vicinanza con partito neo-nazionalista italiano provoca errori di valutazione.

Una bandiera storica non potrebbe dunque rappresentare i lombardi desiderosi di autodeterminarsi, essendo, in modo del tutto inspiegabile, intrinsecamente incompatibile con una visione progressista ed inclusiva della Lombardia e dell’indipendentismo lombardo. Ovviamente tale affermazione è un assioma, senza bisogno di essere spiegato, ma soprattutto senza spiegazioni.  Resta da capire dunque se un rispetto del proprio patrimonio culturale costituisca un ostacolo all’integrazione di individui di diversa estrazione all’interno del processo indipendentista. Osservando quanto avvenuto in Catalunya, dove una popolazione in maggioranza non di origine catalana difende l’identità catalana, e la considera come parte fondamentale del processo indipendentista, mi sento di dire che no, tale ostacolo non sussiste. Una riscoperta del nostro patrimonio culturale ed identitario potrebbe anzi favorire l’integrazione di quella parte di popolazione lombarda con origini non autoctone, ricreando un senso di comunità di cui anche loro potrebbero sentirsi parte.

L’associazione tra identità, mancanza di integrazione e chiusura verso il prossimo è un mito da sfatare. Il caso catalano dimostra che una società fortemente legata alla propria cultura e al proprio senso di comunità può perfettamente essere inclusiva. Perché quanto vale per la Catalunya non dovrebbe valere per noi lombardi? Perché solo e soltanto il nostro patrimonio simbolico e la nostra cultura dovrebbe essere considerata come una minaccia per un percorso di autodeterminazione all’insegna del progressismo?

La lingua lombarda come base per una nuova scuola

Finalmente, dopo una lunghissima pausa dovuta a continui impegni universitari, torno a riflettere sul futuro della nostra Lombardia, ed a condividere queste riflessioni con chi avrà voglia di leggerle.

Avendo a che fare con il mondo indipendentista  ed identitario da numerosi anni, mi sono imbattuto spesso in uno dei temi classici della battaglia lombardista: il recupero della cultura locale e la salvaguardia della lingua lombarda. In particolare mi sono concentrato sulla possibilità di introdurre l’insegnamento della lingua lombarda nelle scuole pubbliche. Partiamo da un presupposto: preferisco parlare unicamente di scuola pubblica, dal momento che credo sia giusto concedere agli istituti privati una completa autonomia nella scelta del proprio programma scolastico. Inoltre, da buon antistatalista, sono convinto che l’istruzione dei nostri figli sia una cosa troppo importante per essere lasciata allo stato. Nella Lombardia di domani, la scuola pubblica dovrebbe essere gestita dalle comunità locali, sia dal punto di vista del suo finanziamento, sia ovviamente nella scelta dei programmi scolastici.

Una delle principali critiche che si sentono rivolgere all’ipotesi di insegnare le lingue minoritarie nelle scuole è la presunta inutilità economica di questo insegnamento. Imparare la lingua lombarda non avrebbe nessuna utilità per i nostri giovani, i quali non troverebbero nessun vantaggio e nessuna possibilità in più di entrare nel mercato del lavoro. Spesso questa obiezione viene data per scontata, senza nessun tipo di approfondimento sul tema. Dal mio punto di vista invece il collegamento tra conoscenza del territorio, della sua cultura e della sua identità e tessuto economico di un dato territorio meriterebbe una maggiore e più consapevole analisi. Siamo sicuri che una maggiore consapevolezza delle ricchezze e peculiarità della propria terra non possa avere dei ritorni economici per la Lombardia?

Anche dando per scontato che tale presunta inutilità sia vera, rimane da capire se l’insegnamento della lingua e della cultura lombarda dovrebbe essere inserito all’interno del programma della scuola pubblica. Dal mio punto di vista, la scuola pubblica non ha come fine quello di creare una classe lavorativa, quanto di educare gli studenti ad essere dei cittadini consapevoli. Già ora i programmi scolastici hanno al loro interno materie, mi riferisco alla grande maggior parte delle materie umanistiche, che non sono considerate utili per entrare nel mercato del lavoro, ma utili per l’arricchimento e la preparazione culturale dello studente. Lo studio della propria lingua locale si inserisce proprio in questo alveo, essendo una materia di studio che ricostituisce il legame tra giovane ed il suo territorio e ne aumenta il pensiero critico nei confronti anche della propria classe dirigente. E dal mio punto di vista i compito della scuola è proprio questo: creare dei cittadini, il cui tratto fondante è il pensiero critico. Dei cittadini che conoscono la storia del proprio territorio sono meno disposti ad accettarne supinamente la distruzione. Secondo quest’ottica, la lingua lombarda nelle scuole non solo non sarebbe più un orpello inutile, ma diventerebbe tratto fondante di una nuova idea di scuola.

Un personale resoconto del referendum catalano

In occasione della storica consultazione referendaria catalana dello scorso 9 di novembre pro Lombardia Indipendenza era presenta con una propria delegazione. Abbiamo avuto la possibilità di far parte della delegazione ufficiale di EFA(European Free Alliance), l’organizzazione europea che racchiude tutti i principali partiti indipendentisti, tra cui è possibile annoverare lo Scottish National Party ed Esquerra Republicana de Catalunya, che ci ha fatto da ospite e ha guidato la delegazione nei diversi seggi.

Lo storico week-end a cui abbiamo potuto prendere parte comincia nella serata di sabato 8 novembre, quando abbiamo avuto la possibilità di cenare con i principali esponenti di EFA e con diversi esponenti di spicco di ERC. In particolare, abbiamo potuto confrontarci con il deputato catalano Jordi Solé Ferrando, che ha risposto a tutte le nostre numerose domande sul futuro prossimo della Catalunya, non mancando di augurarci i medesimi successi per la nostra Lombardia. Difficilmente posso ricordare occasioni di confronto più interessanti, e so di poter parlare a nome di tutta la nostra delegazione. Il giorno dopo, il vero storico giorno che ha cambiato la storia della Catalunya e di tutta l’Europa, abbiamo viaggiato letteralmente dai monti al mare. Prima ci siamo recati nella città montana di Vic, centro dove storicamente l’indipendentismo ha sempre avuto largo consenso. Le lunghe code ai seggi sono state la migliore testimonianza di questa inarrestabile voglia di libertà. Vedere una simile voglia di partecipare ad una vera e propria rivoluzione democratica è stato a dir poco commovente.

Subito dopo ci siamo spostati da Vic a Badalona, centro nella periferia di Barcellona. Durante il tragitto in pullman ci ero stato detto di non aspettarci la stessa partecipazione di Vic, vista la forte componente di immigrati spagnoli ed extra-iberici nell’elettorato di Badalona. Questo ha amplificato la sorpresa e la commozione nel trovarci davanti una coda di più di cento metri. Cento metri di persone che con pazienza aspettavano sotto la pioggia per poter votare e decidere il proprio futuro. Uno spettacolo che lascia davvero senza parole. Nel pomeriggio abbiamo visitato altri seggi, stavolta a Barcellona, per poi recarci nella sede ufficiale di ERC, dove abbiamo assistito ai primi(incredibilmente positivi) dati sull’affluenza.

La giornata, storica tanto per la Catalunya quanto per noi lombardi in trasferta, si è conclusa al centro culturale el Born, dove Carmen Forcadell, presidentessa dell’Assemblea Nacional Catalana, ha dato voce a quanto milioni di catalani stavano già pensando: la Catalunya ha già votato, e le leggi dello stato spagnolo per essa non hanno più valore. Starà ora al governo di Madrid venire a patti con questa nuova realtà. Questo è quello che più mi ha colpito. Siamo atterrati in una regione spagnola, ma siamo decollati due giorni dopo da una terra che era conscia di essere una comunità nazionale, e che doveva solo affrontare un percorso politico per emanciparsi da uno stato divenuto ormai straniero. Non da una posizione di subalternità, quale sarebbe stata implicita per una regione qualsiasi, ma da una posizione di parità nei confronti del governo di Madrid. Non so quanto ci vorrà per la Catalunya per diventare uno stato, se ci vorranno mesi o solo poche settimane, ma sono certo nel modo più assoluto che il processo di autodeterminazione del popolo catalano non sia solo iniziato, ma sia già sulla via della conclusione. Una comunità nazionale ha riconosciuto di essere tale ed ha deciso di voler essere uno stato, la questione ora è solo quanto il governo di Madrid potrà resistere arroccato sul castello di carte costituzionali che fino a ieri credeva inespugnabile. I catalani avranno la forza di confrontarsi con uno stato  riconosciuto come la Spagna?

Io ripenso a quei catalani che aspettavano sotto l’acqua, e dico sì, una determinazione simile non può essere arginata.

Abbattiamo tutti insieme il nuovo muro d’Europa

Domani partirò per la Catalunya insieme a tutta la delegazione di pro Lombardia Indipendenza. Avremo l’onore di far parte della delegazione ufficiale dell’European Free Alliance(EFA), l’organizzazione europea che riunisce i più importanti movimenti politici indipendentisti. Tra di essi è possibile annoverare lo Scottish National Party, nonché il primo partito catalano, Esquerra Republicana de Catalunya, che ci farà da ospite in quest’avventura. Mentre i catalani voteranno per la propria indipendenza dando inizio ad una nuova fase della storia europea, gireremo per numerosi seggi incontrando importanti figure politiche catalane ed europee.

Faccio fatica a ricordare momenti di maggiore entusiasmo. Da una parte l’onore di far parte di una delegazione ufficiale, e soprattutto il riconoscimento dato al nostro movimento, d’ora innanzi il vero riferimento politico internazionale per l’indipendentismo in Lombardia. Dall’altra, la consapevolezza di essere presente, e chissà, dare il proprio contributo, a quello che sarà considerato come un momento rivoluzionario della storia d’Europa. Sono convinto che negli anni a venire ricorderò con estrema gioia i prossimi giorni, ed è una sensazione davvero piacevole.

Ma aldilà dell’entusiasmo personale che questo viaggio può darmi, cosa comporterà questo referendum per l’Europa? Partiamo da un presupposto, la storia ha davvero una mirabile teatralità. Il 9 novembre non sarà solo la data del referendum catalano, ma sarà anche il venticinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, l’evento che ha segnato un passaggio dirimente nella storia d’Europa, rivoluzionando completamente la cartina dell’Europa orientale. Quella che fu una rivoluzione per l’Europa orientale ebbe invece relative conseguenze per l’Europa occidentale. Il sistema degli stati europei è sopravvissuto. Fino ad ora.

Il referendum in Catalunya potrebbe infatti cambiare sia la nostra concezione dei rapporti tra i diversi stati europei sia l’idea di autodeterminazione dei popoli. L’opinione pubblica europea dovrà affrontare la decisione inamovibile ed unilaterale di un popolo di autodeterminarsi, e tutto ciò nonostante la costituzione spagnola che vieta tale diritto. Per la prima volta vedremo il voto democratico di un popolo soverchiare l’autoritarismo di uno stato europeo, dando inizio ad una nuova evoluzione del diritto degli stati. Un nuovo muro sta per essere abbattuto, il muro dell’autoritarismo stantio dello stato novecentesco.

Se la caduta del muro di Berlino ha permesso una nuova fase di convivenza del popolo tedesco e di tutti i popoli europei, l’indipendenza della Catalunya permetterà una nuova fase di libertà in Europa, un risveglio delle comunità nazionali come la Lombardia, ed una nuova affermazione della democrazia.

Spetta ai catalani l’onore di portare a compimento questa rivoluzione, ma mai come in quest’occasione tutti noi dobbiamo manifestare con forza la nostra solidarietà al popolo catalano,

Abbattiamo tutti insieme un nuovo muro, ed entriamo in una nuova Europa.

Juri Orsi

Indipendentismo e antifascismo: un legame indissolubile

Ripropongo un mio vecchio pezzo del Dicembre scorso sul legame tra antifascismo ed indipendentismo. Rendersi conto di quanto questa tematica sia ancora d’attualità mi rattrista molto.
Di recente  un partito italiano che si definisce indipendentista ha stabilito dei rapporti volti ad un’alleanza politica con il Front National di Marine Le Pen, partito di estrema destra francese. Non è la prima volta che lo stesso partito italiano strizza l’occhio a movimenti esponenti di una destra populista, i quali in modo non troppo velato alimentano la nostalgia nei confronti della dittatura fascista. Questo fatto di cronaca politica ci può stimolare a ragionare sui rapporti tra l’indipendentismo,  la volontà di secedere dallo stato italiano, e l’ideologia fascista e la nostalgia per il ventennio. Per troppi anni abbiamo assistito ad un’ambiguità perpetrata dalla Lega Nord su questi temi, che ha sempre accolto tra le sue fila persone apertamente ispirate da ideali fascisti, e che rimpiangono il ventennio di dittatura fascista. La Lega Nord, che da decenni rappresenta nulla più che un partito di estrema destra italiano, ha pertanto glissato su questo tema, spesso contrastando apertamente le commemorazioni nelle città lombarde della liberazione dal potere fascista. Una volta che abbiamo quindi assodato che la Lega Nord non è un partito indipendentista ma semplicemente un partito italiano di estrema destra, possiamo però fare delle riflessioni su questa ambiguità: è possibile coniugare l’indipendentismo con un giudizio positivo del ventennio fascista? Partiamo da alcuni presupposti: l’ideale indipendentista non è né di destra né di sinistra; spesso abbiamo assistito ad una serie di movimenti politici indipendentisti a livello europeo caratterizzati da un’ideologia di destra o di sinistra. Questo non riguardava però l’idea stessa dell’indipendenza delle rispettive nazioni in sé, ma gli ideali a cui ci si intendeva ispirare nella costruzione della nuova realtà statale una volta ottenuta la libertà. È importante definire la totale estraneità dell’indipendentismo dalle dinamiche destra-sinistra proprio per non ripetere gli errori già fatti in Lombardia, e per evitare di ghettizzare ulteriormente un’idea che si propone di unire tutti i lombardi. Detto ciò possiamo concentrarci sull’indipendentismo e sul suo legame con lo spirito antifascista. Dal mio punto di vista indipendentismo e antifascismo sono concetti legati indissolubilmente, e il primo senza il secondo è di certo contraddittorio. Guardando indietro agli ultimi 150 anni di storia, non possiamo non pensare che la dittatura fascista sia stata il momento massimo di sfruttamento e schiavitù della nazione lombarda da parte dello stato italiano. Per la prima, ma purtroppo non ultima, volta abbiamo assistito al sistematico tentativo di cancellazione della nostra identità nazionale, sostituita da un aborto culturale quale è l’identità nazionale italiana. Mai come nel fascismo abbiamo assistito soprattutto ad un evidente tentativo di eliminazione di ogni forma di democrazia , con la creazione di una dittatura autoritaria se non totalitaria. Come può un indipendentista giudicare positivamente quanto appena illustrato? A mio parere non può! Per prima cosa appunto non vedo come si possa non condannare tale tentativo di distruzione della nostra cultura. Nel sistema di istruzione italiano all’inizio degli anni 20 cominciavano timidamente a farsi largo le teorie di Graziadio Isaia Ascoli sulla rivalutazione delle lingue locali, con una parziale e di certo insufficiente riscoperta delle culture locali; il fascismo invece ha segnato un involuzione incredibile e ha imposto una cultura dittatoriale che vedeva nel culto dello stato e dell’inesistente nazione italiana la sua colonna portante. Perseguire l’indipendenza della propria nazione inoltre significa volerne l’autodeterminazione, ovvero la presa di coscienza da parte della popolazione di appartenere ad una comunità nazionale e la possibilità di decidere democraticamente se dividersi da uno stato, unirsi ad un altro o crearne uno nuovo.  Tutto questo si basa appunto sul diritto di autodeterminazione, ovvero il diritto democratico di un popolo di decidere dal proprio futuro, in particolare dello stato in cui vogliono vivere. È pertanto evidente che non possa esistere nessuna concordanza tra l’ideale indipendentista e quello fascista. Il modello fascista è infatti la negazione della democrazia, vista come d’ostacolo all’affermazione totale dello stato. L’indipendenza passa dall’esatto opposto del fascismo: l’esaltazione della democrazia diretta come unico modo per restituire la vera sovranità alle comunità nazionali come quella lombarda. È giunto il tempo di smettere di tollerare ambiguità, e di chiarire apertamente quello che deve essere uno dei pilastri del nostro essere indipendentisti!
Lombardia antifascista! Lombardia libera!

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Juri Orsi

L’indipendenza e il finto rischio dell’escalation secessionista

Una delle più comuni critiche che vengono rivolte all’indipendentismo, e più in generale allo stesso  diritto di autodeterminazione, è il rischio che una volta ottenuta l’indipendenza, anche le nuove entità statali inizino ad essere dilaniate da ulteriori spinte indipendentiste; questo processo, se portato agli estremi, finirebbe con lo sfociare in un’assenza dello stato. Quante volte abbiamo sentito o letto la frase: “entro pochi mesi finiremmo a fare secessioni di un condominio dall’altro”. Ora, aldilà dell’effettiva natura negativa dell’assenza dello stato, cosa del tutto opinabile, è utile analizzare se questo timore sia fondato o meno. Se una o più comunità nazionali soggiogate dallo stato italiano ottenessero l’indipendenza, si creerebbe davvero un precedente politico e giuridico che porterebbe in pochi mesi alla dissoluzione di qualunque istituzione e ad una sorta di guerra di tutti contro tutti come molti paventano?

Possiamo analizzare la questione dapprima da un punto di vista empirico, per poi passare ad un’analisi teorica. Noi lombardi abbiamo una grande fortuna; per cercare modelli di istituzioni che riconoscono la sovranità dei cittadini ci basta guardare pochi kilometri a Nord. In questo caso possiamo guardare al principato del Liechtenstein. Come è noto, il principato è un esempio di microstato. Infatti la sua popolazione conta circa 36°000 abitanti, divisi in 11 comuni.  Ovviamente tali comuni hanno poche migliaia di abitanti, la capitale Vaduz ne ha infatti solo 5 mila. È interessante notare che la costituzione del principato riconosce il diritto di secessione dei singoli comuni. Nell’articolo 4 della costituzione leggiamo infatti “Ai singoli Comuni spetta il diritto di recedere dall’Unione statale. Sull’avvio del procedimento di recesso decide la maggioranza dei cittadini ivi residenti aventi diritto di voto”.  Questo potrebbe risultare scioccante per tutti gli strenui difensori della sacra unità dello stato, in quanto il vaso di Pandora che secondo loro noi stiamo cercando di aprire risulta aperto a pochi kilometri da noi. Possiamo osservare allora qual è il risultato del riconoscimento del diritto di autodeterminazione, controllando se effettivamente si presenta come quello scenario post-apocalittico descritto in precedenza. Sorpresa sorpresa, i comuni non secedono dal principato. Il motivo è evidente: non hanno interessa a farlo. Che interesse avrebbe un comune di poche migliaia di abitanti a creare uno stato indipendente, con tutti gli oneri interni ed internazionali che ne derivano? Che interesse ha a secedere da uno stato che dal punto di vista amministrativo e politico funziona? È quindi evidente che questo rischio di dissoluzione di qualunque unità politica che porta alla fine del nostro vivere comunitario non sussiste, come evidenzia la prassi in esame.

Ma se esiste la possibilità per i singoli comuni del Liechtenstein di dividersi dal principato, perché ciò non avviene? Questo può essere spiegato dall’analisi teorica precedentemente citata. Posto che il controllo di un determinato territorio costituisce un tratto caratterizzante e fondamentale dello stato moderno, e che lo stato può essere oggi considerato come entità politica fondamentale del mondo contemporaneo, è evidente che l’autodeterminazione di una comunità nazionale che decide di secedere dallo stato di appartenenza costituisce una rottura del contratto sociale alla base della formazione dello stato suddetto. Il recesso da un contratto di questo tipo non è affatto una decisione dettata da motivazioni contingenti; costituisce infatti una forma di ribellione politica(e, spero non ci sia necessità di evidenziarlo, PACIFICA). La scelta democratica di rompere il contratto dipende dal venir meno di condizioni fondamentali e imprescindibili per la convivenza di un popolo con una data organizzazione statale. Nel caso lombardo, ad esempio, possiamo annoverare una rapina fiscale senza precedenti nella storia moderna dell’Occidente e un sistema costituzionale che impedisce di fatto qualunque riforma in senso democratico.  Se non sussistessero condizioni paragonabili a queste, non si arriverebbe al recesso dallo stato e alla formazione di una nuova entità statale.  In Liechtenstein non si verificano secessioni proprio perché non sussistono le condizioni per una rottura politica simile. Questo confuta quindi il rischio di una sistematica serie di secessioni politiche; la nuova entità statale sorta dalla prima secessione si dividerebbe a sua volta solo se si costituissero delle condizioni di malfunzionamento o iniquità così gravi da spingere una parte a voler rompere i legami politici con essa. Altrimenti nessuno avrebbe interesse a secedere da uno stato formandone uno nuovo. Insomma, il nostro essere indipendentisti non deriva da un capriccio passeggero, ma dalla convinzione(che chiaramente noi consideriamo consapevolezza) che non sussistano più le condizioni per continuare a vivere sotto uno stato che stritola la nostra economia, impedisce il nostro autogoverno, nega e tenta di cancellare la nostra cultura e la nostra storia. Una condizione del genere, dal mio punto di vista, potrebbe di certo venire a crearsi nei nuovi stati, provocando la volontà della popolazione di una data area di autodeterminarsi. È quantomeno pronosticabile però che questo sarebbe un caso limite e sicuramente che non si verificherebbe con facilità, provocando una serie incontrollata di secessioni come da molti paventato.

In ogni caso, immaginando la Lombardia del futuro, sarà doveroso prendere spunto dal principato del Liechtenstein per la natura costituzionale del nostro nuovo stato, riconoscendo il diritto di secessione alle future unità territoriali lombarde. Questo per due ordini di motivi:da una parte riconoscere il diritto di secessione rappresenta un aspetto fondamentale, insieme ad un sistema di democrazia diretta, per garantire il vero autogoverno individuale e collettivo; dall’altra perché riconoscere un diritto di secessione alle nostre future unità territoriali rappresenta il primo incentivo per il governo federale a funzionare nel modo migliore e nel totale rispetto dei diritti democratici dei cittadini. Concludendo, l’indipendenza della Lombardia non aprirà un vaso di Pandora scatenando una serie infinita di secessioni, ma sarà il primo passo per la formazione di un sistema istituzionale che, riconoscendo il diritto di autodeterminazione, funzionerà nel modo migliore per far sì che le sue parti componenti siano soddisfatte dalla sua unità.

Juri Orsi